Ova, ’na fimmina e ’na jaddina fanu ’n mircatu

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Nella società contadina, una delle incombenze quotidiane delle donne era quella di occuparsi (in dialetto cuvirnari) delle galline per contribuire con la vendita delle uova al bilancio familiare e alla preparazione del corredo per le figlie. I maschi erano impegnati dall’alba alla sera tardi nel faticoso lavoro dei campi.
Haju puddasceddi (pollastre) ténniri, ténniri, ova frischi e bielli! era la banniata (Dal germanico BANDUJAN = dare pubblico annuncio) di quelle massaie che si recavano in città o nei paesi vicini per vendere uova o qualche pollastra. Il modo di dire Ova,’na fimmina e ’na jaddina fanu ’n mircatu, nato a proposito, con il tempo ha acquisito il significato metaforico di “Basta poco per fare chiasso e confusione”.
Questo tipo di allevamento domestico per la donna non era un lavoro pesante in quanto le galline erano in grado di procurarsi da sole il nutrimento razzolando per la campagna e attorno al casolare, da qui il detto: ’A jaddina ca camìna s’arricogghi câ vozza (gozzo) china. (In senso figurato: “Chi vuol guadagnare esca fuori, si muova”). Tutto al più poteva preparare loro, e quando ne aveva la possibilità, un pastone di crusca: Dici la jaddina a la patruna: Dammi di lu pizziddu (diminuitivo di PIZZU = punta e quindi piccolo becco) ca ti dugnu di lu culiddu (una variante è pirtusiddu; in senso figurato il motto significa: “Se vuoi un buon lavoro, paga bene” e ciò per evitare che il lavoro venga fatto a peri ’i jaddina, cioè male). Si credeva che impastando la crusca con foglie d’ortica, le galline producessero più uova.
C’era anche chi, per avere ogni giorno l’uviceddu friscu pô picciriddu, si permetteva di allevare (tinìri ’i jaddini) nel cortile del paese o della città due o tre galline rinchiuse dentro una nassa (gabbia in legno) o libere sul terrazzino di casa. Si riteneva che la loro presenza, così come quella dei gatti, non potesse arrecare alcun danno a cose e a persone: Jatti e jaddini ’u Signori si nni ridi!.
Cci-cci-cci…o Picci- picci- picci… era il verso per chiamarle al cibo (’a ’mpastata di canigghia), Sciò-sciò-sciò quello con cui si scacciavano.
Una credenza popolare giustificava così il coccodè della gallina: Nun mai ppi l’ovu la jaddina canta, ma pi lu sforzu lu culu cci abbampa (gli brucia, denominale di VAMPA = fiamma).
Per sapere quale delle galline nel corso della giornata avrebbe fatto l’uovo, la massaia introduceva il dito medio nell’orifizio anale di ogni bestiolina. Quella che per l’età smetteva di fare uova, detta jaddina stagghiata (Dal latino STAGNARE = essere fermo, cessare la propria attività), veniva venduta o, in occasione di festività importanti come il Natale e la Pasqua, finiva sulla tavola dei padroni perché ’A jaddina vecchia fa broru bonu, su quella del povero ci finiva raramente: Si ’u poviru si mancia ’a jaddina o è malatu iddu o è malata ’a jaddina.
Gli introiti derivanti dalla vendita delle uova erano spesso indispensabili per la vita di una famiglia per cui, quando erano in tante le galline che non producevano uova perché entrate nel ciclico periodo dell’estro, la massaia le immergeva fino al collo nell’acqua fredda per spegnerne il calore e far sì che riprendessero a fare uova.
Per rinnovare ’u jaddinaru (il pollaio) e potere vendere ’i jadduzzi (i galletti), la buona massaia vigilava sulla chiocciata. Qualcuna in controluce riusciva a distinguere le uova fecondate. Periodo favorevole alla covata era quello in cui la luna era crescente o piena; pare che fossero pochi i pulcini che, nati durante la luna calante, riuscissero a sopravvivere.
Scrive Pisano Baudo in Sortino e Dintorni : “…se i pulcini vedranno la luce nel mancamento della luna o morranno o cresceranno stentatamente –vengono allunati-… Quando si vede un bambino magro e rachitico si dice: Pari lu puddicinu di la luna. Per tre volte a luna nuova strappano le penne più lunghe della coda alle pollastre, dicendo: Crisci e ‘ngrassa, preia ’a morti ca ti lassa”.
Se veniva a mancare ’a çiocca (la chioccia) la massaia si dava da fare con un espediente ereditato dalla tradizione popolare. Alle ore 12 del 25 marzo, giorno in cui si ricorda l’apparizione dell’Angelo a Maria e l’annuncio dell’incarnazione, prendeva ’na jaddina niura (non aveva importanza se faceva ancora le uova) e la posava su una cesta dentro la quale aveva precedentemente messo, in numero dispari, le uova da covare. Per evitare che scappasse, con entrambe le mani la bloccava sulla cesta e quando la gallina non si muoveva più la copriva con un panno facendovi con la mano destra il segno della croce. Da quel momento la gallina sarebbe diventata chioccia (acciuccata) perché quell’ora di quel giorno, secondo la fantasia della popolazione rurale dell’Ottocento, era miracolosa per la fecondazione. Non per niente la Santa protettrice dei polli era la Madonna.
Se durante la covata, che durava dai 20 ai 25 giorni, scoppiava un temporale non c’era da preoccuparsi per la sana formazione dei pulcini perché la massaia aveva messo precedentemente sotto la paglia, che fungeva da letto alle uova, un pezzo di ferro in grado di assorbire le scosse dei tuoni.
L’attitudine propria delle galline nere, divenute chiocce in modo forzato, a non proteggere adeguatamente i propri pulcini nei loro percorsi giornalieri alla ricerca di cibo ha dato origine al detto Essiri figghiu râ jaddina niura con cui in senso figurato ancora oggi si suole indicare chi, all’interno della famiglia o di una comunità è meno rispettato degli altri, diversamente dal prediletto o beniamino che è indicato come Figghiu râ jaddina janca. Un’amara considerazione alla disparità di trattamento di qualcuno nei confronti di una persona piuttosto che di un’altra è l’espressione sentenziosa che si riallaccia al mondo di questi animali: Cci dissi ’u puddicinu ’nta la nassa: quannu maggiuri c’è, minuri cessa.
La chioccia naturale invece era più amorevole e protettiva, addirittura salvaguardava i propri pulcini ancor prima che venissero fuori dal guscio delle uova: ’A çiocca sapi scarpisari (calpestare) l’ova, un motto che in senso figurato oggi significa: “Chi è dell’arte sa ciò che fa”.
La gallina nera, se cantava spesso e bene, era considerata genio tutelare della casa, specie della padrona di casa dalla quale secondo un’antica filastrocca doveva essere mangiata:
La jaddina cantatura
nè si vinni, né si duna
si la mancia la patruna.
Altri geni tutelari della casa, detti mira, erano le testuggini, i ramarri e le lucertole. Essi non si dovevano uccidere, ma rispettare e nutrire. Maltrattamenti ad uno di questi animali, seconda la fantasia popolare, avrebbero comportato lunghe e penose malattie in famiglia.
Una volta che tutte le uova della covata si dischiudevano e venivano fuori i pulcini, la massaia difficilmente si illudeva di poterli convertire tutti in denaro, il proverbio Cu’ cunta puddicini cunta pirita la riportava alla realtà. Sapeva bene che quei pulcini prima che fossero cresciuti e diventati galli o galline ci sarebbe voluto del tempo e molti di loro sarebbero morti.
Solo da adulti e, a seconda del sesso, i pulcini si differenziano. Le galline, rispetto ai galli, mettono un piumaggio dalle tinte meno vivaci, creste più piccole e floscie e penne timoniere più corte. Inoltre sviluppano istinti materni e non battaglieri come quelli dei galli.
La sete del guadagno rendeva però impazienti quelle massaie che non erano disposte ad aspettare. Per sapere subito quanti dei loro pulcini sarebbero diventati galli e quanti galline, usavano uno stratagemma: li mettevano uno alla volta sul palmo della mano e nel tirare loro una delle incipienti penne della coda, recitavano questa formula:
Si si’ jadduzzu canta, canta
si si’ puddascia muzzicati l’anca.
Secondo la tradizione popolare, il pulcino che emetteva un pigolio era un potenziale galletto, quello che si pizzicava la parte posteriore era una pollastra.
Una volta diventati adulti, occorreva scegliere tra i sopravvissuti il nuovo leader del pollaio, ’u rre rô jaddinaru, il gallo da tenere, uno solo perché Dui jaddi ’nta gnaddinaru ’n ponu stari. Il prescelto doveva possedere più degli altri alcuni requisiti che gli avrebbero permesso di espletare la sua funzione di jaddu:
-doveva dimostrare di sapere guidare ’i jaddineddi alla ricerca del cibo secondo il detto: ’U
jaddu a purtari e ’a jaddina a scaliari (razzolare, frugare per trovare il cibo);
-doveva cantare puntualmente di mattino presto perché ’U jaddu è lu raloggiu di la campagna
anche se un antico detto recitava il contrario Cô jaddu e senza jaddu, Diu fa jornu (in senso
figurato: “Quando qualcosa deve accadere, non c’è scampo, nessuno è indispensabile”;
-doveva essere autoritario e dominare con la sua presenza tutto il pollaio: Tinta ’dda casa unni ’a
jaddina canta e ’u jaddu taci. (In senso figurato: “È da compiangere quella famiglia in cui il
marito è comandato dalla moglie”). Di eguale significato è l’altro proverbio: Si ridussi lu jaddu
di Sciacca d’essiri pizzuliatu di la çiocca che equivaleva A la casa ca ‘n c’è birritta (in senso
figurato, l’uomo) nudda cosa ci va dritta;
-non doveva brontolare senza motivo: ’A jaddina fa l’ovu e ô jaddu cci abbrusca ’u culu.
Per farli ingrassare meglio e alla svelta, gli altri galletti venivano capponati e venduti. Con la castrazione perdevano la voce e veniva loro tagliata ’a cicca o cricca (la cresta, la prima dal latino CIRCULUS , perché rotonda, la seconda dal greco CRICOS, perchè rotonda come un anello): Lu jaddu senza cicca è un gran capuni (e l’omu senza dinari è un gran minchiuni).
Le creste di quelli castrati, dopo essere state recise ed essiccate al sole e al vento, venivano passate sulle gengive dei neonati perché, secondo la medicina popolare, favorivano la crescita dei denti in maniera indolore. Si credeva anche che le uova calde e appena deposte, se strofinate sugli occhi, acuissero la vista.
A proposito di canto dei galli, mi si consenta una digressione. Sino ai primi del ’900, durante il giovedì grasso nella piazza principale di Rosolini, si teneva una gara tra squadre diverse. Ognuna si presentava con un gallo infiocchettato con nastri di colori sgargianti. Vinceva quella il cui gallo cantava prima degli altri. Il proprietario del gallo vincitore veniva proclamato rre rê jaddi (re dei galli) e partecipava alla sfilata per le vie del paese con il gallo in braccio e con una penna del suo animale in testa. Per stimolarli al canto, durante la gara tra i galli concorrenti veniva messa una gallina la cui presenza poteva scatenare un vero e proprio combattimento di galli.
Nella società contadina il rapporto fimmina-jaddina era regolato più dalla superstizione che dalla ragione. Per evitare l’assalto della baddottula (donnola) che, aggirandosi per le campagne, faceva strage di galline, le donne ricorrevano ad atti rituali come il maritamentu di la baddottula la cui formula deprecatoria era molto conosciuta.
La massaia, appena scorgeva quell’animale pericoloso per le sue galline, gli puntava l’indice di entrambi le mani recitando questo scongiuro tramandatoci da Salvatore Salomone Marino:
Baddottula, Badduttulina,
nun tuccari ’a jaddina
Ca ju ti maritu quantu prima!
Si si’ fimmina, ti rugnu ‘u figghiu rô re;
si si’ màsculu ti rugnu ’a rigina.
Si racconta che la donnola, una volta “maritata”, si allontanava definitivamente da quelle galline per andare a “sfogare sui topi il suo istinto vorace”.
Se ad insidiare le galline erano volpi e martore le donne ricorrevano all’aiuto di persone che, secondo la fantasia popolare, erano dotate di facoltà paranormali: un Vinnirinu (uomo nato di venerdì) o un Settiminu (il settimo maschio di una famiglia) che rendevano inoffensivi gli animali pollicidi. Lo stesso Salomone Marino scrive che ’u Vinnirinu si slegava un laccio di cuoio di una delle sue scarpe, vi faceva tre nodi e, tenendolo ben steso tra l’indice e il pollice di tutte e due le mani, affatturava la volpe o la martora tramite la recita di questa formula che implorava l’intervento soprannaturale:
Cummari, ca tiniti li jaddini
Purtati lazzi, firruzzi e catini
Ppi ’ncatinari vurpi e marturini:
scànzami la çiocca e tutti’i puddicini,
in nomu di lu Patri, lu Figghiu e lu Spiritu Santu.
Concludiamo con due locuzioni proverbiali che confermano l’indole bonaria ed ironica dei nostri avi. Quando qualcuno chiedeva loro qualcosa che essi non erano in grado di dare o che ritenevano controproducente dare, invece di rispondere con un secco “no” o con un categorico “mai”, usavano delle perifrasi con le quali solo apparentemente davano l’impressione di lasciare uno spiraglio di concessione, in realtà rimandavano ad un tempo che, come le calende greche, non sarebbe mai arrivato: Sì, quannu fa l’ova ’u jaddu! oppure: Sì, quannu piscia ’a jaddina!

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