Autore: Redazione

  • Emanuele De Benedictis

    Emanuele De Benedictis

    Storico e patriota, nasce a Siracusa nel 1820. Frequenta da giovane la scuola del Chindemi, aiuta Alessandro Rizza nella fondazione del Gabinetto Letterario e collabora con il giornale “Il Papiro”. Nel 1860 particolarmente attivo tra i liberali che favoriscono l’arrivo di Garibaldi. L’anno seguente pubblica “Siracusa sotto la mala signoria degli ultimi Borboni”, dove espone il ruolo di Siracusa nei moti del ’20 e del “60 ed il suo diritto ad essere capoluogo di provincia. Del 1868 è “Memorie su l’ingegno, gli studi e gli scritti del medico Alessandro Rizza”, ispirato dalla stima e dall’amicizia per lo scienziato e cittadino siracusano. Ma l’opera più importante di questo patriota è certamente Storia di Siracusa dal 734 a.C. al 1860, sulla quale lavora per tutta la vita.
    Tiene cariche importanti, tra cui quella di segretario del Gabinetto  Letterario e di segretario del Governatore del Distretto.
    Muore nel 1891.

    Storia di Siracusa. dalle origini ai normanni
    Uno dei testi fondamentali per l’approfondimento della millenaria storia di Siracusa, realizzato da uno studioso siracusano dell’Ottocento che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle vicende storiche della sua città dalle origini all’Unità d’Italia. Un’opera monumentale che si avvale tra l’altro di erudite citazioni di brani e testimonianze di cronisti contemporanei agli eventi storici minuziosamente descritti. L’opera di De Benedictis viene riproposta in tre volumi autonomi ampiamente illustrati. Il primo volume analizza le vicende storiche della città dalle sue origini, i grandi protagonisti della Siracusa antica, le guerre puniche, i tiranni, la conquista romana, i Saraceni, i barbari ed infine la dominazione normanna.

  • Siracusani famosi

    Siracusani famosi

    Questa raccolta vuole ricordare tutte le persone che hanno contribuito con i loro studi e le loro opere a dare lustro alla nostra città.
    Siano stati loro figli naturali o adottivi di Siracusa, ad essa si sono sentiti di appartenere maturando nel tempo un legame culturale, artistico, sociale; un amore spirituale ma anche fortemente terreno per questa città che da ogni sua piega fa trasparire secoli di storia e di storie lasciateci da altri viaggiatori che in ogni tempo hanno deciso di interrompere qui il il loro viaggio, incantati da una natura fatta di luce, profumi, sapori.
    Donne e uomini che hanno amato Siracusa alla quale hanno dedicato, hanno donato, per la quale hanno scritto, hanno creato, hanno lavorato.
    Sono diventati personaggi per un intervallo di tempo, breve, lungo, e dopo sono stati dimenticati perché è così che accade col passare del tempo.

  • TOMASELLI ONOFRIO (senior)

    TOMASELLI ONOFRIO (senior)

    Studiò pittura con il pittore P. Volpes, frequentò poi l’Accademia di Belle Arti di Napoli allievo di Domenico Morelli. Dal 1890 si stabilì definitivamente a Palermo dove, accanto all’attività di pittore, svolse quella di insegnante. Notevoli fra i suoi dipinti: Cristo e i lavoratori(1897); Paganesimo(1898); Le gocce di primavera(1900); Ritratto del compositore russo N. Amani, esposto nel 1901 alla Biennale di Venezia. Divenne noto ritrattista, trattò il quadro di genere, cercando di fondervi concetti antichi e moderni, d’attualità, eseguì soggetti sacri, specie nel campo dell’affresco e soggetti di vita.

    Onofrio Tomaselli Senior fu soprattutto un ritrattista, anzi fu il ritrattista ufficiale della nobiltà e della borghesia palermitana fin de siecle. Sposato egli stesso con una nobildonna, la napoletana Emilia Glaudi di Aragona, dei marchesi Tagliavia, ebbe 4 figli: Armando, Giacomo, Giovanni e Ida.

  • La Tragedia del Conte Rosso Monumento ai Caduti d’Africa

    La Tragedia del Conte Rosso Monumento ai Caduti d’Africa

    Il Conte Rosso: storia e tragedia

    II Conte Rosso – quasi 180 m di lunghezza, più di 22 m di larghezza, oltre 17.0001 di stazza lorda, e con velocità superiore ai 18 nodi – fu varato nel febbraio 1921 ed entrò in servizio sulla rotta Genova-Napoli-New York nel 1922, seguito, l’anno dopo sulla stessa linea, dal gemello Conte Verde. Tutti e due transatlantici facevano parte della flotta del Lloyd Sabaudo ed entrambi, dopo qualche anno, furono spostati sulla linea che collegava l’Italia col Sud America.
    In seguito ad importanti accordi politico-armatoriali, all’inizio del 1932 i due “Conti” entrarono a far parte della neo costituita società “Flotte Riunite Italia”. Più avanti, nello stesso anno, le navi passarono sotto la bandiera del “Lloyd Triestino” e, con nuovi allestimenti, furono destinate a coprire la rotta fra Trieste e l’Estremo Oriente con scali a Venezia, Brindisi, Suez, Bombay, Singapore e Shangai.
    Il 3 dicembre 1940, come molte altre navi passeggeri, anche il Conte Rosso fu requisito dalla Regia Marina e adibito al trasporto truppe tra Napoli e Tripoli (il Conte Verde, anch’esso requisito, rimase bloccato a Shangai), entrando a far parte, con altre navi in grado di navigare oltre i 15 nodi, dei cosiddetti “convogli veloci”. Tale era anche il convoglio formato dalle navi Conte Rosso, Esperia, Victoria e Marco Polo che scortato dal RCT Freccia e dalle RT Procione, Orsa e Pegaso prese il mare da Napoli all’alba del 24 maggio 1941. Nel pomeriggio, passato lo Stretto di Messina, si unirono al convoglio
    come scorta indiretta gli incrociatori Bolzano e Trieste e i RCT Ascari, Corazziere e Lanciere. Poco dopo il tramonto ci si cominciava a preparare per trascorrere la notte. Montava un po’ di nostalgia. Il giorno seguente, però – a meno di brutte sorprese, subito rifiutate non appena si affacciavano alla mente – si sarebbe messo piede in Africa. Ma eccola la brutta sorpresa: si chiamava Upholder (sostenitore, difensore), era un sommergibile inglese, aveva gli ultimi due siluri da utilizzare (per lui) al meglio e attendeva (?) a circa dieci miglia al largo di Siracusa. Dai dati ufficiali erano sul Conte Rosso 2729 uomini: 1432 si salvarono, circa 1300 furono i Morti e Dispersi.
    Finiva qui la storia del Conte Rosso e ne iniziava la tragedia!

     

    Cesare Samà
    (consulente storico artistico per la manifestazione)

     

     

    La testimonianza di un superstite.

    Mi imbarcai assieme ai miei compagni sulla bellissima nave Conte Rosso che svolgeva servizio di trasporto truppe. Purtroppo la sera del 24 maggio 1941 alle ore 20,41 circa, due siluri di un sommergibile inglese la colpirono e la mandarono a fondo in brevissimo tempo. Annegarono 1297 ragazzi in pochi minuti e non parliamo purtroppo delle camicie nere di avanzata età che erano alloggiate nelle stive. … (La nave ) si vedeva a colpo d’occhio che si sarebbe inabissata in poco tempo. Quindi si può immaginare la mia paura dal momento che non sapevo nuotare. Si vedevano gruppi di ragazzi inginocchiati a pregare e il cappellano che li benediva. Ad un tratto si sentì la voce del capitano che gridò “Si salvi chi può!!”. Io non volevo morire dato che mio fratello era già morto durante la Grande Guerra del 15-18. … Riuscii comunque a calarmi e a gettarmi nell’acqua, ma non essendomi legato al salvagente, cominciai a bere e a gridare a squarciagola “Aiuto!”. Ad un certo punto vidi un ufficiale staccarsi da uno zatterone e venirmi vicino dicendomi “Calma ragazzo, ti tengo io!” … Intanto l’acqua non era più acqua, ma bensì un mare di nafta. … In quel momento ci terrorizzava il fatto che tutto il mare intorno a noi potesse incendiarsi e finire così tutti quanti arrostiti. In quelle condizioni siamo rimasti fino alle 5 del mattino seguente, quando ci raccolsero altre navi di soccorso che ci portarono al porto più vicino, Augusta in Sicilia.

     

  • Cagnaccio di San Pietro(Natale Scarpa)

    Cagnaccio di San Pietro(Natale Scarpa)

    Cagnaccio di San Pietro
    (Natale Bentivoglio Scarpa)
    Natale Bentivoglio Scarpa nasce a Desenzano il 14 gennaio 1897 e cresce nell’isola di San Pietro in Volta nella laguna veneta, luogo d’origine dei genitori manifestando fin dall’infanzia una spiccata attitudine per le attività artistiche.
    Il suo percorso parte da un’inclinazione e un interesse privilegiato per l’attività plastica, a Venezia segue i corsi di Ettore Tito all’Accademia di Belle Arti e, intorno al 1911, il futurismo allora nascente lo coinvolge con la sua portata innovativa e ricca di stimoli. La vicenda drammatica della guerra segna una profonda linea di demarcazione tra un prima e un poi modificando definitivamente la sua visione del mondo, un’esperienza estrema che investe tutto l’ambiente artistico di quel periodo. Nel 1919 partecipa insieme a Gino Rossi, Casorati, Garbari, Semeghini alla mostra di Cà Pesaro a Venezia, esponendo Cromografia musicale e Velocità di linee-forza di un paesaggio, due opere di impronta futurista. Intorno al 1920 comincia a firmare i suoi lavori con il nome di Cagnaccio con cui era conosciuto nella piccola isola di San Pietro. E del 1920 La tempesta, tema che verrà ripreso e variato nel suo ultimo dipinto, La furia, del 1945.
    L’opera segna un momento importante nel percorso artistico di Cagnaccio che proprio in questi anni inizia a gettare le basi della propria originalità e impronta stilistica. La tempesta è il punto di partenza per l’evoluzione della sua ricerca che, ormai affrancatasi dall’esperienza futurista, si rivolge alla tradizione formale del Quattrocento, unendo all’attenzione per la realtà la forza trasfigurante dell’emozione. Nel 1922 espone alla Biennale di Venezia La tempesta, le sue opere, che vengono inoltre esposte alle mostre di Cà Pesaro di quegli anni, saranno presenti nelle successive edizioni della Biennale fino al 1944 e oltre.
    Certamente a Cagnaccio interessa la realtà, ma sempre mediata, attraversata da quella portata emozionale che, attraverso l’arte può rivelarsi. Verso il 1925 l’artista inizia a firmarsi Cagnaccio di San Pietro. Suoi temi preferiti sono le nature morte, i bambini, il quotidiano, restituito però in chiave straniata e talvolta drammatica, con il rigore di una ricerca sempre estremamente tesa e una lucida, esasperata attenzione per il dettaglio.
    È del 1928 il dipinto Dopo l’orgia, che venne rifiutato dalla commissione della Biennale probabilmente anche per la brutale chiarezza con cui veniva rivelata nei particolari dei polsini fregiati del fascio littorio, il potere corrotto del fascismo.
    Cagnaccio di San Pietro un anarchico, un cane sciolto, dimostra di non voler rinunciare all’impegno morale, conditio sine qua non di tutto il suo lavoro, sostanzialmente autonomo e spesso eccentrico rispetto all’ambiente artistico del tempo segnato dalla presenza del Novecento.
    Va sottolineato inoltre come Dopo l’orgia non sia formalmente troppo lontano dalle realizzazioni della Nuova Oggettività tedesca; in ogni caso Cagnaccio spinge il realismo fino alla sua dimensione più estrema e straniata, non di rado avvalendosi di tagli, rese cromatiche e punti di vista propri del mezzo fotografico. Nel corso degli anni Trenta Cagnaccio continua ad affinare gli strumenti della sua ricerca, sempre più orientata verso un misticismo e una crescente attenzione per il mondo spirituale.
    Nel 1934 realizza / naufraghi, una grande tela che verrà esposta alla Biennale di Venezia nel 1935, in cui è presente una doppia componente: da una parte una presa diretta sulla realtà e dall’altra la rarefazione della realtà stessa, cifra originale che caratterizza lo stile dell’artista. Tra il 1937 e il 1938 soggiorna a Genova.
    Tornato a Venezia viene ricoverato tra il 1940 e il 1941 all’ospedale del Mare del Lido: nascono così opere che affrontano direttamente e con lucidità il tema della sofferenza, sempre sottilmente sotteso al suo lavoro.
    Il lavoro di Cagnaccio di San Pietro, infaticabile disegnatore e artista dalle molteplici suggestioni, viene regolarmente esposto nell’ambito di mostre personali e di rassegne pubbliche fino alla sua morte, sopraggiunta il 26 maggio 1946 a Venezia. In seguito verranno curate rassegne espositive che contribuiscono a restituire il giusto rilievo all’artista per un lungo periodo impropriamente confinato in un ruolo di secondaria importanza nel contesto culturale del suo tempo.
    (DT)

  • L’arsenale

    L’arsenale

    L’Arsenale è il posto dove anticamente si fabbricavano e si riparavano le navi ed, eventualmente, si tiravano in secco durante la stagione invernale o quando subivano delle avarie, per poter riparare dalle burrasche o per poter semplicemente ristrutturare gli scafi che si lesionavano durante i viaggi.
    Dell’Arsenale di Siracusa parla Diodoro quando dice che Dionisio nel 404 a.C. divise l’isola di Ortigia dal resto della città mediante un muro difeso da alte e spesse torri e vi costruì un forte, e “comprese nella cerchia delle mura l’Arsenale che dava nel Porto Piccolo: questo Arsenale, sufficiente per 60 triremi aveva una porta chiusa, per la quale poteva passare una nave per volta. Dionisio fece poi costruire tutt’intorno al Porto Piccolo, detto Lakkios, 160 magnifici capannoni, la maggior parte dei quali poteva contenere anche due navi, e fece riparare i 150 già esistenti”.
    La flotta costituiva uno dei più fidi sostegni di Dionisio. Questo fatto politico era espresso e simboleggiato nel fatto materiale che la casa di Dionisio faceva tutt’uno con le mura dello stesso Arsenale di Siracusa.
    Nel complesso, Siracusa doveva avere nel suo Arsenale, nell’ultimo ventennio del V secolo a.C, circa 150 navi. Dopo le guerre con gli Ateniesi e con i Cartaginesi, Dionisio ordinò che si mettessero in cantiere contemporaneamente più di 200 navi e che si riparassero le 110 navi rimaste. “Ed era uno spettacolo che riempiva di sgomento a vedere fabbricare in un punto solo tanta quantità di armi e di navi. Ad osservare l’attività che regnava nei cantieri, si sarebbe detto che tutti i Sicelioti erano lì a lavorare”. Una metà delle navi da guerra venne equipaggiata con comandanti e rematori scelti tra i cittadini; per l’altra, Dionisio assoldò degli stranieri. Quando fu terminata la costruzione delle armi e delle navi, arruolò i soldati; non lo aveva fatto prima per non gravare troppo di spese il bilancio. Quei preparativi servirono per la guerra contro Cartagine. Quello che rimane oggi è una minima parte dell’Arsenale che aveva Siracusa. Tucidide, lo storico greco, ci parla del vecchio Arsenale di Siracusa, che serviva sia per le navi commerciali sia per le navi da guerra; egli lo cita a proposito delle navi da guerra, perché Siracusa in quel periodo ebbe uno scontro molto forte con Atene e riuscì a vincere proprio grazie alla sua potente flotta.
    Dell’antico Arsenale resta oggi l’ossatura basamentale, ricavata nel banco roccioso e costituita da profondi incassi quadrangolari e da basi di pilastri per l’appoggio di macchine usate per tirare a secco le navi.
    L’Arsenale era molto grande e poteva ospitare molte navi di notevoli dimensioni, come si evince dall’ampiezza dei solchi ancora visibili. Questi sono su una spianata di roccia più o meno levigata, sono tutti a distanze regolari, quindi non sono naturali, ma fatti apposta; in questi solchi scorrevano le funi utilizzate per tirare in secco le navi. Nel III secolo a.C. nell’Arsenale di Siracusa fu costruita da Ierone II, su progetto di Archimede, una delle poche navi che ha un nome nell’antichità, la Siracosia, così grande che solo due porti riuscivano a contenerla: il Porto Grande di Siracusa e quello di Alessandria. Ierone II la regalò al suo alleato Tolomeo, re d’Egitto, piena di una grande quantità di prodotti in occasione di una grande carestia. Un gesto che nell’antichità fece molto scalpore e che gli storici hanno riportato.

    Nel III secolo a. C. nell’Arsenale di Siracusa fu costruita da Ierone II, su progetto di Archimede, una delle poche navi che ha un nome nell’antichità, la Siracosia.
    La notizia della straordinaria impresa, descritta da uno dei geometri che attese ai lavori, un certo Moschion, fu ripresa da Ateneo, un filosofo del III secolo d.C, ed è giunta fino ai nostri giorni in maniera incompleta, ma tuttavia sufficiente per avere un’idea dell’eccezionalità dell’opera.
    Si apprende dal racconto che Ierone fece venire dall’Etna tanto legname, quanto sarebbe stato sufficiente a fabbricare 60 triremi. Per il fasciame e le strutture esterne importò pioppi dalla Spagna e ginepri dal fiume Rodano in Germania. Gli operai addetti a questa costruzione furono ben 300, aiutati da un numero imprecisato di manovali, assistiti e diretti personalmente da Archimede. La nave era a 3 alberi: il più grande di essi fu tagliato in Sila ed il trasporto fu tale impresa da fare passare alla posterità il nome dell’ingegnere che lo eseguì, Filea da Taormina.
    Vi erano per i passeggeri 30 cabine con 4 letti e, per il padrone della nave, una stanza da pranzo di 15 posti e 3 cabine da 3 letti. I pavimenti erano ricoperti di mosaici che rappresentavano scene dell’Iliade. I soffitti, le porte, le suppellettili erano squisitamente lavorati. Sopra c’era un Ginnasio e verzieri e tende di edera bianca e viti che ombreggiavano gli ambulacri; attiguo a questi era un triclinio dedicato a Venere, con pavimento di agata, e delle più belle pietre di Sicilia, con pareti e soffitto di cipresso, e pitture, statue e vasi. C’era anche una sala di lettura con biblioteca, e un bagno con vasca in marmo variegato di Taormina. C’erano inoltre cabine per i soldati, per il personale addetto alla stiva, un serbatoio d’acqua di 79 m3, legnaia, cucina, etc.
    L’armamento della nave, contro ogni possibile assalto di pirati, era formato da 8 torri, 2 a prora, 2 a poppa e 4 in mezzo, che nella parte inferiore contenevano un deposito di pietre e di proiettili e dalle quali si potevano lanciare sassi contro il nemico. A bordo era collocata anche una catapulta, invenzione di Archimede, che poteva lanciare sassi di 78 kg ed aste di oltre 5 m. Attorno la nave era irta di punte di ferro contro coloro che volessero assalirla. Ierone la chiamò Siracosia. Quando scoppiò la carestia in Egitto, Ierone la fece caricare di ingenti quantità di frumento, carne ed insaccati di ogni genere e la spedì ad Alessandria. In quella circostanza il nome della nave fu cambiato in Alexandria in onore della città dell’Egitto.

  • Chiesa di san giovanni evangelista  e  cripta di san marziano

    Chiesa di san giovanni evangelista e cripta di san marziano

    Testo tratto da:
    SIRACUSA IN ETA’ BIZANTINA
    di Santi Luigi Agnello

    Il complesso monumentale di S. Giovanni Evangelista, costituito da una grandiosa e singolare basilica a tre navate e da una cripta parzialmente scavata nella roccia, che prende il nome da S. Marciano, è del massimo interesse sia dal punto di vista architettonico – essendo la chiesa il più grande edificio di culto siciliano di epoca premusulmana -, sia da quello storico-religioso, per le memorie connesse con le origini del cristianesimo a Siracusa.
    La cripta, con la chiesa sovrastante, è ubicata in un sito, che ricevette una prima sistemazione in età greca classica con l’apertura di una cava di pietra, all’interno della quale, dopo il suo abbandono, si installò in età tardoellenistica un’officina di vasai con annessa area cultuale: è un tipo di impianto che nella stessa Siracusa trova puntuale riscontro con le officine dei figuli da me localizzate nell’ex Vigna Cassia e sotto la piazza s. Lucia. In una fase ancora successiva (età tardoimperiale) il sito ebbe destinazione cimiteriale ed accolse piccoli ipogei, i cui resti sono ancora in parte visibili. Quest’area cimiteriale fu utilizzata almeno sino al 423, come documenta un’iscrizione consolare; le testimonianze epigrafiche e pittoriche (purtroppo l’affresco delle due Alessandre è andato distrutto) dicono inoltre che il sepolcreto era cristiano. Esso venne interamente manomesso nel VI sec. per far posto alla cripta, realizzata in parte con un approfondimento del taglio in roccia ed in parte con strutture murarie colmate all’esterno da terra di scarico trattenuta da muri di contenimento e rinforzo. In scala minore, l’impresa ricorda quella realizzata a Roma da Costantino per erigere la primitiva chiesa di s. Pietro.

    La cripta ricevette un assetto che arieggia quello delle cellae trichorae, ma con l’aggiunta di recessi laterali, in uno dei quali si trova il deposito di reliquie con fenestella confessionis, in forma di sarcofago, che la tradizione attribuisce ah antiquo a s. Marciano; si eresse poi un corpo centrale attestato dalle basi di quattro colonne disposte in quadrato, le quali servivano di sostegno alla copertura e racchiudevano l’altare. In un momento successivo, che è quello della ricostruzione del XII sec., crollato o demolito il corpo centrale, lo spazio interno venne articolato da grandi pilastri in muratura, la quale fodera pure le pareti perimetrali. Residuano pochi resti dei due pavimenti. Ometto di far menzione di tutte le aggiunte e modifiche operate tra il 1428 ed il nostro secolo.
    La questione relativa al sepolcro del Santo dette origine 30 anni addietro ad una vivace polemica tra due studiosi probi, ma con modeste cognizioni archeologiche. Oggi, dopo le ricerche cui fui sollecitato proprio da quella polemica, è agevole osservare che i costruttori della cripta e della basilica non avrebbero manomesso un sepolcreto, né avrebbero affrontato le difficoltà tecniche opposte dalla conformazione del sito se non per una grave ragione, quale poteva essere quella della sistemazione definitiva, e rispondente a mutate esigenze di culto, della tomba del protovescovo della città.
    Devo aggiungere che la soluzione del problema della chiesa siracusana non va ricercata in Occidente (dove le tombe o le reliquie dei martiri e dei confessori sono collocate sotto l’altare, quasi sigillate), ma in quell’Oriente dal quale la Sicilia era attratta da oltre un secolo; soprattutto in Siria, dove “il culto dei martiri si mantenne distinto dalla liturgia eucaristica e seguì un diverso sviluppo. Partendo dal principio che il reliquiario deve poter essere raggiunto dai fedeli, non si usarono […] cassette da collocare sotto l’altare, ma […] sarcofagi speciali muniti di canalini di scolo, dal quale il popolo raccoglieva l’olio santificato dal contatto […]. I sarcofagi venivano esposti alla venerazione in uno degli ambienti dei pastofori, di regola quello sud, trasformato e reso adatto alla nuova funzione” (P. Testini). E proprio a sud è il recesso col sarcofago nella cripta siracusana.

  • Palazzo greco

    Palazzo greco

    Siracusa, piccolo centro dell’estremo Sud d’Italia, trova un proprio ruolo economico nel panorama di una nazione baldanzosamente proiettata verso l’avventura coloniale, ed insieme ridefinisce la propria identità culturale. Sale infatti agli onori della cronaca grazie all’iniziativa di un gruppetto di borghesi e di intellettuali guidati dal conte Mario Tommaso Gargallo.
    La sua idea è quella di far rivivere nel più bello e grande dei teatri greci d’Occidente le opere drammatiche dell’antichità classica. Per questo costituisce un “Comitato per le Rappresentazioni classiche” che, per la primavera del ’14, promuove la realizzazione dell’Agamennone di Eschilo.
    Viene chiamato a dirigere l’iniziativa il grecista e poeta Ettore Romagnoli, che compone anche le musiche, mentre per le scenografie ed i costumi si sceglie un poliedrico artista romano, Duilio Cambellotti.
    Questa prima serie di rappresentazioni ha un tale successo di pubblico e di critica che apre grandi prospettive economiche alla città e spinge il Comitato a dare un assetto istituzionale più stabile alla propria iniziativa.
    Dopo la prima guerra mondiale, nel 1925 nasce così ufficialmente l’Istituto del Dramma Antico, che si costituisce in Ente morale e si da uno statuto. Ogni tre anni, fra maggio e luglio, sulle gradinate del teatro greco di Siracusa prendono vita gli antichi drammi, coinvolgendo non solo il pubblico de- gli specialisti ma spettatori di varia origine ed estrazione culturale.
    Gli antichi versi sono ancora capaci dì rievocare, con un linguaggio attuale, gli eterni temi dell’esistenza umana.
    Già in questi anni si ha una profìcua collaborazione della Scuola d’arte nella realizzazione degli spettacoli.
    La seconda guerra mondiale causò una nuova interruzione degli spettacoli, che riprendono con ritmo biennale nel 1948.
    Vengono chiamati registi ed attori di fama’ internazionale e sperimentate soluzioni tecniche e di regia a volte d’avanguardia. Ma rimane centrale la peculiarità di una drammaturgia pensata per rappresentazioni all’aperto di testi classici.
    Nel 1978 l’I.N.D.A. viene riconosciuto come “Ente necessario allo sviluppo sociale, civile, economico e culturale del Paese”.
    Ormai le sue iniziative e le sue attività si moltiplicano. Non solo si allestiscono spettacoli classici nei teatri all’aperto in Italia ed all’estero (Grecia, Spagna, Giappone, America Latina etc.) ma si organizzano congressi internazionali di studi sul dramma antico e se ne pubblicano gli atti nella rivista “Dioniso”. Viene anche aperta una scuola professionale per interpreti di teatro antico.
    Grande successo ha l’iniziativa di creare una giornata delle scuole all’interno del ciclo biennale di rappresentazioni, tanto che si dedica ai giovani un vero e proprio Festival, le cui messe in scena teatrali si svolgono nel teatro greco di Palazzolo Acreide.
    Una ulteriore maniera questa, di coinvolgere le nuove generazioni nella rivisitazione dei testi classici. Ed ancora una volta troviamo in prima fila gli studenti ed i professori dell’Istituto Statale d’arte e del Liceo classico di Siracusa, cui si affiancano con gran- de entusiasmo scuole di tutta, Italia e d’Europa.

     

  • TRENTACOSTE DOMENICO

    TRENTACOSTE DOMENICO

    Domenico Trentacoste,nato a Palermo il  20 Settembre 1859, è morto il  18 Marzo 1933 a Firenze.
    U. Orietti ricorda che Domenico Trentacoste è stato tra i primissimi
    nazionalisti e ,subito dopo la guerra vittoriosa, tra i primi fascisti .

    Figlio di un fabbro, ma di famiglia baronale decaduta, studiò dapprima a Palermo, sotto la guida di Delisi e Costantino. Dopo un breve soggiorno a Napoli nel 1878, si trasferì a Firenze per completare gli studi, qui si innamorò dei Quattrocentisti, di Donatello e Michelangelo, in particolare. Nel 1880 fu ancora a Palermo dove, per l’arco di trionfo apprestato per la visita del re Umberto I, plasma in gesso una grande Minerva seduta; coi soldi guadagnati, andò a Parigi, e qui strinse amicizia con lo scultore Antonio Giovanni Lanzirotti; l’anno successivo espose al Salon una testa di vecchio . Fu chiamato a Londra dal pittore Edwin Long, espose Cecilia alla Accademy, dove ottenne un vivo successo di pubblico. A Parigi eseguì anche una serie di sculture a soggetto idillico o mitologico e a destinazione decorativa. Tra il 1887 e il 1889 plasma due busti di donna, Pia dei Tolomei e Cecilia, che lo consacrarono scultore di forme leggiadre, di attitudine classica, allo stesso tempo capace di rivelare l’espressione psicologica. Nel 1895, rientrò in Italia da Parigi dopo un soggiorno di quindici anni, espose alla Prima Biennale di Venezia l’impegnativa La diseredataLa derelitta in marmo e la testa in marmo di Ofelia, già esposta nel 1893 a Parigi e nel 1894 a Vienna. L’anno successivo partecipò all’Esposizione Internazionale di Firenze, ancora con Ofelia; partecipò all’Esposizione di Torino col marmo Alla fonte; nel 1897, alla III Esposizione Triennale di Brera, mostrò un gesso per monumento e ripropose Ofelia. Due anni più tardi, alla III Biennale di Venezia espose due marmi, La figlia di Niobe e Ritratto; nel 1901 fu membro della giuria della Biennale veneziana, dove figurò con RitrattoTesta di vecchioIl ciccaiuoloBustino di bimbaL’aurora infranta. Nel 1903, alla stessa rassegna inviò i bronzi CainoSeminatorePompeo Molmenti e la targhetta in gesso dedicata all’attrice Emma Gramatica. Per lunghi anni fu insegnante all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1904 aderì all’Associazione Arte Toscana. Dal 1908 è membro della Commissione comunale di belle arti di Firenze. Nel 1909 espose alla Società Leonardo da Vinci di Firenze. Nel 1910, partecipò alla Biennale di Venezia con i marmi Sorriso infantileMadre con bambino e nudo di donna e il bronzo Testa. Nel 1911 eseguì Per grazia di DioPer volontà della Nazione. L’anno successivo con il Cristo morto fu nuovamente alla Biennale di Venezia, dove apparirà, per l’ultima volta, nel 1922 col bronzo Il Vescovo Geremia Bonomelli. A marzo del 1920 tenne una mostra personale alla Galleria Pesaro di Milano; due anni più tardi, partecipò alla Fiorentina Primaverile e nel 1925 partecipò alla II Biennale di Monza. Un anno prima della scomparsa fu nominato Accademico d’Italia.

  • TERZI ANDREA

    TERZI ANDREA

    Di povera famiglia, fu aiutato da uno zio canonico e poté recarsi a Palermo, dove, sotto, la guida del Patania, si dedicò specialmente all’acquarello. Incitato dall’abate Gravina, a soli diciannove anni copiò quasi tutti i quadri del tempio di Monreale; e i suoi disegni servirono poi ad illustrare la “storia” della detta chiesa, esordì nel 1861 con l’opera Il Duomo di Monreale Copiò pure i quadri della cappella Palatina, illustrò l’opera La cappella Palatina: opera che fu premiata all’Esposizione Universale di Vienna nel 1873 e a quella di Parigi nel 1878. Una ammirata Pianta topografica ed archeologica di Siracusa, in quindici tavole, gli fu commessa dal Ministero della Pubblica Istruzione. Espose a tutte le mostre italiane; e frequentemente all’estero, specialmente a Vienna e Parigi.